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Indulgenti verso se stessi e gli altri. Un atto di fede

2020-03-31 11:46:39

Indulgenza è la benevola disposizione d’animo per cui si è portati a perdonare, compatire, scusare le colpe, gli errori, i difetti altrui o, per altro verso, chiedere, sperare, implorare, ottenere indulgenza. Siamo capaci di essere indulgenti anche con noi stessi? Può costituire ciò un atto di fede?

Solo qualche sera fa, in tanti erano davanti allo schermo sulle immagini di Papa Francesco nello scenario desolante di piazza San Pietro. Il Pontefice era lì, tra l’altro, per impartire indulgenza plenaria: la modalità attraverso la quale la chiesa cattolica si rivolge a Dio, al fine di ottenere “compassione” per i limiti, gli errori, i “peccati”, dell’umanità intera. Un atto di fede che, in questo momento, mi interessa approfondire sul versante delle relazioni con se stessi e con gli altri. Dal mio punto di vista, ciò che rende la fede concreta, pratica, esistenziale dal vivere ordinario.

Treccani in mano, indulgenza è la benevola disposizione d’animo per cui si è portati a perdonare, compatire, scusare le colpe, gli errori, i difetti altrui o, per altro verso, chiedere, sperare, implorare, ottenere indulgenza. Con riferimento la mondo latino e medievale, remissione di una pena in genere, condono di un tributo, amnistia. Nello stesso Vocabolario, nella chiesa cattolica, indulgenza assume il significato di guadagnare, lucrare, acquistare l’indulgenza.

Da altra fonte apprendo che – per antica opinione – nella sua etimologia dulgére terrebbe a dùlcis (dolce) cambiando la “c” in “g” per eufonia: in-dùlcis, dolcezza verso se stessi.

L’autorevole Vocabolario, quasi a rimarcare parte del pensiero della chiesa cattolica, tratta dell’indulgenza su piani diversi: quello terreno, umano che ha a che fare con le relazioni interpersonali, e quello con Dio, che ha a che fare con il divino, l’onnipotente, in una relazione nella quale – a partire dalla condizione, a priori, di peccatori – si è sempre in atteggiamento di subalternità, di richiesta di indulgenza. Se nelle relazioni umane ci si gioca su posizioni alterne, una volta da richiedenti una volta da concedenti indulgenza, quando ci si pone davanti a Dio la posizione umana è unidirezionale.

È quella parte del pensiero della chiesa (e della “religione”) che non condivido, metafisica, spiritualistica, fuori dal mondo e, in essa, di chi l’agisce interpretandola in questo modo e magari ancora “catechizza” secondo questo orientamento.

L’offerta di una percezione di Dio fuori dal mondo spoglia Dio della sua umanità: spoglia l’umanità di Gesù detto il Cristo, fatto uomo a voler testimoniare Dio in mezzo a noi, e – dall’esperienza della risurrezione in poi – del suo Spirito in mezzo a noi. Spirito che da sempre, in principio era il logos, e per sempre, fino alla fine dei tempi, è ciò che “anima” l’agire di un cristiano: a tale Spirito abbiamo dato il nome di Amore. L’espressione vi riconosceranno da come vi amerete è l’esortazione a dare consistenza a tutto ciò: l’agire verso il mio prossimo, in particolare quando questo prossimo è nelle condizioni di vulnerabilità. Un agire concreto, attento, per non cadere nella contraddizione alla quale sempre Giovanni richiama come può amare Dio, che non vede, chi non ama suo fratello, che vede? : questo fratello è Cristo-Dio in mezzo a noi, in carne e ossa, non in una dimensione altra fuori dal mondo. In tale accezione, il “regno”, quei “cieli e terra nuova” sono già in mezzo a noi e ciascuno è chiamato ad esserne co-costruttore per mezzo dell’Amore che, sempre in questa accezione, è lavoro, produzione, fatica, passione e, contemporaneamente, fonte di inesauribile felicità.

L’esperienza di un’epidemia senza confini ci ha sbattuto in faccia tutti i limiti di un agire individualistico, facendo emergere tutte le contraddizioni di quel mondo, solo apparentemente libero, di legami liquidi, che abbiamo contribuito a costruire: politico, religioso, famigliare, lavorativo. È in questa notte oscura che occorre riabilitare la coscienza, avviando quel processo che, partendo dalla constatazione della realtà, lasciandosi interrogare dalla stessa, spinga ciascuno ad interrogarsi di cosa farne di quei valori (anche cristiani): se lasciarli come enunciati o decidersi di metterli in azione. Un passaggio dal vivere all’esistere, valido per ciascuna persona individualmente presa e come appartenente ad una qualche communitas.

Una sana forma di inquietudine, capace di muovere le coscienze per andare incontro alle fragilità che questo tempo ha ulteriormente amplificato. Come atto di fede, intervenendo in quei contesti a noi prossimi, messi alla prova, con gesti di concreta benevolenza, offrendo le competenze possedute o, più semplicemente, le braccia.

Una forma di indulgenza che occorre sperimentare innanzitutto con se stessi, imparando a volersi bene, a trattarsi con cura; ad avere passione per sé, perdonandosi le inevitabili mancanze, anteponendo la benevolenza al giudizio di sé: è azione che apre alla grazia. Alla riscoperta di quella particolare forma di bellezza, di darsi “dolcezza”, utile a vincere ogni paura e produttiva di quella capacità di osservare la realtà trovando in essa, anche nella peggiore delle situazioni, quelle forme di bellezza da coltivare e custodire. Un punto di partenza, e un principio, dal quale muovere verso gli altri.

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