Top Founder President
Questa mia recensione risultò poi profetica per gli ulteriori dolori...
Resoconto dell’incontro con Sossio Giametta “Letture commentate di Così parlò Zarathustra. I canti della solitudine”, Milano, Palazzo Reale (30. 3.2011)
La gente invidia i grandi perché li ritiene beniamini della fortuna, come i brutti invidiano i belli, e a loro riguardo non si fa scrupoli. Ma dalle vite dei grandi si levano a volte terribili lamenti. Questi sono di solito soffocati dal pudore, ma talvolta sono urlati per troppo strazio. D’altra parte i grandi, pur soffrendo, non sono disposti a barattare la loro sorte con il benessere della gente comune. Nietzsche implora il dio sconosciuto di preservarlo dalla piccola felicità per un grande destino. Goethe, il felice, il fortunato, l’olimpico, dice che la sua vita è stata un continuo risollevare un macigno che continuava a cadere. Schopenhauer si è dannata l’anima per far passare la sua grande filosofia, riuscendovi solo tardi (“La vita mi ha offerto delle rose bianche”) e Nietzsche in vita non c’è riuscito affatto. I grandi sanguinano. Quando essi, spinti da una forza irresistibile (la vocazione), si mettono sulla strada solitaria della grandezza, ingaggiano immediatamente un selvaggio duello con il loro Io animale, privato, che pretende le sue soddisfazioni e non sa e non vuole sapere della grandezza, ossia del vivere per l’ideale, per gli altri, secondo la tendenza centripeta che conduce verso il centro della specie. Coloro, infatti, che soddisfano i bisogni della specie (di potenziamento e di propagazione) sentiti come bisogni personali, devono sfruttare per questo la loro base animale, devono reprimere e opprimere il loro io egoistico, che però non possono sopprimere, per non sopprimere se stessi. Questo Io personale, privato, egoistico, più è sacrificato e più selvaggiamente, incessantemente tiranneggia l’altro per avere le sue soddisfazioni. Al punto che i grandi possono, nei momenti di abbattimento, invidiare a loro volta la gente comune, che non si deve preoccupare d’altro che di se stessa. Il rimedio più comune, per i grandi, è di rifugiarsi nella solitudine, dove sono liberi dalla morsa della vita, dall’incomprensione, dal misconoscimento e condizionamento della gente comune. Ma la solitudine è privazione, è sofferenza, perché i grandi non sono diversi dagli altri nel loro bisogno di amore, di comunione, di affetto, di comprensione, di riconoscimento, di solidarietà. La solitudine è un rimedio doloroso, è mancanza dei beni fondamentali della vita, è disperazione.
Contro il male della solitudine, Nietzsche escogita un primo rimedio, consistente nello scrivere da qualunque parte a parenti, amici, conoscenti, ripetendo a volte con le stesse parole gli stessi lamenti: così cerca uno sfogo al suo dolore. Un secondo e più drastico rimedio è quello di ammansire, esorcizzare la solitudine amandola, amandola come una madre. Ma si può amare la solitudine come una madre dolce, tenera, provvidente, affettuosa? Solo per finta. La solitudine è un mostro che ingoia chi vi è condannato. I due canti dello Zarathustra: “Il ritorno” e “Il canto della notte”, esemplificano questo dramma dell’uomo Nietzsche. Per dieci anni egli ha raccolto, in cima al monte, un vaso di saggezza. Ma poi ne è tediato come l’ape dal troppo miele prodotto. È preso da sazietà e vuole svuotare il vaso tra gli uomini, tra i quali decide di scendere, di “tramontare”, come il sole a cui si rivolge nell’allocuzione al sole del Proemio di Così parlò Zarathustra. Per “ridiventare uomo”, come dice. Ciò però non gli riuscirà, come è fatto chiaro nel capitoletto seguente, quello dell’incontro nel bosco col santone. Questi, come lui, amava gli uomini, ma si è dovuto ricredere. Gli uomini non vogliono la saggezza, la verità, la dignità, la libertà: queste cose sono per loro troppo pesanti e rendono ancora più difficile il loro cammino nella vita: essi vogliono viaggiare expediti. Per questo si aggrappano a rimedi più spicci: la spensieratezza, l’oblio, la distrazione, l’illusione. E il grande che ha raccolto a fatica tanta preziosa saggezza, deve esserne continuamente gravido senza potersene sgravare.
Sossio Giametta, in queste appassionate letture del libro, ha riportato in auge l’attualità del pensiero del grande pensatore e moralista, più che filosofo in senso classico, Friedrich Wilhelm Nietzsche. “Il mio genio è nelle mie narici”, diceva, volendo significare che le falsità le sentiva a naso. Insofferente di ogni forma di falsità, ipocrisia e illusione, scatena un terremoto contro la religione, la morale, le istituzioni, le tradizioni, le credenze ritenute fondate e indubitabili, i dogmi, le verità rivelate. Ma anche contro i sistemi filosofici e ciò su cui si basano, la logica e i concetti. La verità è una finzione, anzi l’errore di cui abbiamo bisogno per vivere. E’ valida solo quella filosofia che, in un’epoca, aiuta i forti contro i mediocri, i malriusciti, gli schiavi in rivolta. Ma anche la morale ha, come la conoscenza, carattere antropomorfico, un fine di autoconservazione. Il mondo dunque non ha un senso ma ha tutti gli innumerevoli sensi che scaturiscono dall’interno degli esseri viventi.
La crisi storica delle bimillenaria civiltà europea che si irradia nella seconda metà dell’Ottocento in tutte le manifestazioni umane (in politica, nella morale, nell’arte, in filosofia) ha creato anche un uomo antipolitico e inattuale, fornendogli l’occasione per le sue conquiste immortali: alta poesia, filosofia tragica e tellurica demistificazione delle falsità, delle illusioni, delle ipocrisie. Nietzsche è in primo luogo una creazione della crisi, strumentalizzato da essa, e però, per l'irriducibilità reciproca delle due sfere, quella storica e quella umana, anche l'uomo sfrutta, strumentalizza la crisi per realizzare il suo genio. Nietzsche resta un educatore alla grandezza, il più grande campione dell’indipendenza umana, un genio psicologico, un intercessore della vita e un assertore della lealtà e della giustizia verso di essa, un sulfureo e profetico Kulturkritiker con un’etica purissima, scevra di ogni ombra di edonismo e utilitarismo. Grazie, Sossio Giametta, di avercelo ricordato.
Giovanni F⚡F Bonomo - Centro Culturale Candide